A colloquio con…. Franco Ferrarotti
Professore emerito di Sociologia nell’Università di Roma “La Sapienza”, vincitore del primo concorso a cattedra che si è tenuto in Italia nel 1960, Ferrarotti che è autore di innumerevoli saggi e pubblicazioni ha ricevuto un premio alla carriera dall’Accademia Nazionale dei Lincei. Tra le voci più autorevoli del dibattito culturale a livello internazionale riflette sul delicato rapporto che lega sicurezza e territorio alla luce dei tanti conflitti e delle violenze che insanguinano quotidianamente le strade di tante metropoli, teatro di un intenso scontro sociale, che ha rimesso terribilmente a nudo la povertà delle tante periferie del mondo e i drammi di questa “età dell’incertezza”.
Di Massimiliano Cannata
La sicurezza nella città del futuro
Prof. Ferrarotti, Ulrich Beck in un libro molto citato e perciò di grande successo ha parlato di “Società del rischio”. Questa definizione Le sembra adatta a fotografare i tanti nodi di conflitto e di tensione che stanno attraversando le grandi aree metropolitane in tutto il mondo? Gli autori di alcune presunte scoperte meriterebbero la tessera onoraria nel club dei “vati dell’ovvio” e non dico questo con cattiveria. La risonanza che Beck ha avuto in Italia credo che da questo punto di vista non sia completamente giustificata. Fermiamoci a riflettere su un punto cruciale: non vi è società che non sia del rischio, o per dirlo in tedesco del “risiko”. Basti pensare che all’epoca di Cicerone l’età media delle persone non superava i trent’anni. Anche se Socrate viene messo a morte a 76 anni e il filosofo Platone supera gli ottanta si tratta di eccezioni che confermano quella che era un triste regola. Nella civiltà classica il rischio era una costante. Pensiamo al Medio Evo: i storici della Scuola degli Annales, a cominciare da Le Goff, hanno frantumato tanti pregiudizi e stereotipi facendoci capire che quei “secoli bui” non costituirono una realtà granitica, coesa, stratificata, ma al contrario furono attraversati da grandi sommovimenti e cambiamenti. A quell’epoca dobbiamo pensare che non esisteva l’anagrafe, non era quindi possibile stimare i decessi e le nascite. Se rischio è una componente ineliminabile non si può negare che esistono delle peculiarità che distinguono la società dell’informazione in cui siamo immersi. Possiamo individuarle? Quello che caratterizza la contemporaneità è stato il venir meno di alcune regole che nel passato erano largamente condivise. E’ finita la “morale del villaggio” che si traduceva in un controllo sociale stringente. Questo ha fatto sì che i comportamenti che vengono oggi praticati non sono più prevedibili, perchè non rispondono a schemi preordinati. Sono reduce da un viaggio negli Stati Uniti. In metropolitana mi è capitato di osservare la gente di New York e di Manhattan. Chi lo sa, mi sono chiesto, se vicino a me siede un santo o un criminale. Questo vuol dire che il “rischio” di cui parla Beck e altri sociologi è ormai correlato in misura direttamente proporzionale alla mobilità delle persone e alla scarsa conoscenza che abbiamo del nostro vicino. Il dibattito di sociologi, urbanisti, manager, architetti si sta concentrando sulla città, sulle prospettive del suo sviluppo, sulle politiche che bisognerà esperire perché il variegato tessuto multietnico e interreligioso che abita le nostre metropoli non diventi una polveriera, pronta ad esplodere. Da dove bisogna cominciare? Quello della città e del suo sviluppo è un tema forte della modernità, perché impatta in presa diretta sul rapporto tra sicurezza e territorio. Per capire quali tensioni ci attraversano nella quotidianità occorre tener conto di un duplice modello: vi sono le società tradizionali fondate sull’accetazione per cui essere emarginati anche topograficamente, o vivere nella banlieu o nella favelas o nella barriada non è percepito come una sofferenza, perché l’ineguaglianza è accettata come un dato di natura. Ci sono poi i contesti, come quello dei Paesi cosiddetti occidentali, basati sulla competizione intellettuale, sul successo, sulla mobilità. In queste realtà chi non è ai primi posti finisce col deprimersi, si sente l’ultimo degli ultimi e non solo economicamente. Pensa di essere un non – cittadino, insomma un neo schiavo. Da questa matrice insorgono le tensioni e i conflitti in una società, come quella moderna che, lo ribadisco, oltre ad essere fondata sul movimento, ha anche i mezzi per esaltare la mobilità. Treni, aerei, strumenti di comunicazione elettronicamente assistita, sono ingredienti essenziali della nostra vita, con la conseguenza che non possiamo distinguere chi emigra e chi immigra, siamo su scala planetaria una società di migranti. L’omogeneità relativa della popolazione non può che essere messa costantemente in discussione da questa fluidità. Ed è questo un ulteriore fattore di crisi. “L’incendio purifica, brucia, ma rende anche visibili” con questa affermazione ha introdotto il dibattito in occasione di un recente convegno alla Sapienza in cui è stato ripreso un suo celebre studio sulla periferia romana: Roma da capitale a periferia. I disordini della Sorbona, di qualche anno fa, l’emersione dei casseurs oltre a testimoniare una pericolosa lacerazione che divide centro e periferia richiamano alla mente le “squadracce pasoliniane”. La Francia e l’Europa stanno andando verso un nuovo sessantotto? Non esistono punti di contatto con quella fase della storia. Quando si verificò la rivoluzione studentesca tutta l’economia europea e capitalistica stava attraversando una fase di eccezionale boom. Allora i contestatori agognavano l’immaginazione al potere. Adesso chiedono soltanto un posto fisso. Potrà apparire deprimente ma è la realtà. Allora si voleva un nuovo modo di costruire le automobile, adesso è già tanto che si continui a produrle. Le differenze in gioco sono dunque profonde e non vanno sottovalutate. Tecnologie e immigrazione sono i principali fattori di trasformazione delle moderne periferie. Possiamo riassumere questa che è poi la tesi principale del suo saggio: Roma da capitale a periferia? Da quarant’anni osservo quell’onda in movimento che è la periferia romana. E posso dire che è avvenuto un fenomeno straordinario: la “cintura rossa” non c’è più. Non ci sono più gli operai dell’edilizia, quella “frangia dolente” di ottanta mila anime è evaporata. Il sindacato si è fatto “soffiare” da sotto il naso la classe operaia senza accorgersene. Non è stata la Giunta comunale e neanche il potere divino a determinare questo profondo cambiamento. E’ arrivata la nuova tecnologia produttiva nella costruzione delle abitazioni. La classe si è così scompaginata, si è frantumata in una serie di gruppi specializzati di lavoratori. Il secondo grande fattore di spinta è venuto dalla nuova immigrazione. Fino agli anni settanta le vecchie borgate romane erano abitate dalla gente del Sud che non aveva i mezzi per arrivare fino a Milano a Genova, eravamo di fronte al fenomeno della “città cerniera”. Oggi la periferia non è più fatta di “proletari intermittenti”, così definivamo i lavoratori che non erano inseriti in un’economia funzionante in maniera stabile e che perciò rischiavano continuamente di essere risucchiati nel sottoproletariato. Le aree più lontane dal centro come la borgata alessandrina sono diventate quartieri abitati dalla piccola e media borghesia. Come si può rispondere efficacemente alla diffusa domanda di sicurezza e vivibilità che accomuna i cittadini del Nord e del Sud del mondo ? La tentazione degli specialisti è stata tradizionalmente quella di “rimodellare il ghetto”. Abbiamo periferie e quartieri dormitorio: proviamo a ridisegnarli. Un ragionamento a mio avviso erroneo oltre che inadeguato. L’architettura, l’urbanistica, l’ingegneria la stessa sociologia dovrebbero invece, ce lo hanno insegnato i grandi a partire da Le Corbusier, essere impegnate in un lavorìo interpretativo del mondo materiale per afferrare e comprendere la mobilità sociale che caratterizza le città. Bisognerebbe innanzi tutto rivoluzionare il rapporto tra il centro e una periferia che non è scomparsa ma che semmai è divenuta funzionale, in senso necessario, al “cuore” stesso della città. Centro e periferia città e campagna non si contrappongono come una volta. Il momento urbano è destinato a riverberarsi a rovesciarsi ad estendersi anche nella periferia e nella campagna circostante per cui non abbiamo più la città contro la campagna, ma un continuum urbano - rurale che si sviluppa, uso un neologismo, in un processo di “rurbanizzazione”, che è la risultante del termine latino “rus” e della moderna urbanizzazione. Ho vissuto per molto tempo a Boston, scendevo a Rodail nel Connecticut, fino a New York e Baltimora accorgendomi che non c’erano più differenze. Lo stesso è avvenuto nelle nostre città di Torino e Milano, con la creazione della “cintura” torinese. La parola chiave non sarà dunque più distinzione e contrapposizione, ma simbiosi, sinergia. Non si tratta dunque di “rimodellare”, ma di capire che la città di domani sarà costituita da un’area metropolitana policentrica, attraversata da grande mobilità. Le strategie della sicurezza non potranno ignorare il senso di questa evoluzione. Realtà come Parigi, Roma, Londra, Madrid stanno progettando soluzioni urbanistiche per affrontare l’emergenza della nuova immigrazione. Qual è la sua riflessione in merito? Le aree urbane sono un polmone che si espande non solo in senso fisico – geografico, ma anche in relazione alla nascita di nuove e sempre più sofisticate esigenze e dei nuovi rischi che si affacciano a cominciare dal terrorismo e dalle frizioni etcnico - religiose. Dal punto di vista teorico e storico abbiamo due categorie di città: da una parte abbiamo le città classiche, storicamente determinate, pensiamo a Troia con le sue mura, ad Atene. Sono città “monocentriche”. In Italia abbiamo l’esempio di Cortona, Orte, Volterra. Realtà che hanno un tessuto fitto, congegnato come un cristallo o un componimento poetico, nessuno può modificare una parola, un aggettivo, senza chiamare in causa tutto il senso quindi la forma della città. C’è poi la città industriale, un’aggregazione urbana molto intensa, la cui struttura è stata determinata dalla prima fonte di energia, il vapore che, facilmente dissipabile, esigeva una struttura abitativa ad alta concentrazione. La massa, in questo ultimo modello era forza, perché offriva la possibilità di alimentare la “macchina fordiana”, dando forma ad una città “agglutinante”, che si espande con sovrana indifferenza, aggiungendo quartiere a quartiere. Roma sfugge a questa tipizzazione è una società antica ed eterna, ma non nasce come la città greca monocentrica. Affronta subito il problema dell’incremento demografico, così Romolo, almeno secondo quanto ci ha raccontato Tito Livio inventa lo ius soli. Chi arriva a Roma si salva: il criminale, il fuggitivo la Capitale esprime la sua vocazione cattolica universale e una città che accetta tutti. Il suo centro storico è così vitale e aperto da rischiare il soffocamento. Questa natura duplice eterna e storica, ma anche commerciale e industriale è visibile in realtà come Pomezia, negli insediamenti della Tiburtina che sono un tratto distintivo della Capitale. Lo stesso ragionamento può essere fatto per Parigi, che non può ignorare le rivendicazioni dei pieds noirs. Non può rifiutare l’accettazione di cittadini francesi, diretta eredità del colonialismo. Così se ci chiediamo chi sono i responsabili delle bombe nella metropolitana di Londra scopriamo che sono giovani cittadini inglesi che vengono dalle ex colonie, dai domini della corona britannica, che nutrono legittime aspettative. In Italia sperimenteremo tutto questo fra poco, quando i nostri figli e nipoti verranno da matrimoni misti e rivendicheranno diritti di cui tutti noi godiamo. Riassumendo alla luce della sua analisi si può dire che per concepire un progetto di sicurezza valido a livello globale bisognerà reimpostare la convivenza tra realtà policentriche, straordinariamente mobili e mutevoli. Un compito arduo per la politica non Le pare ? Occorrerà governare senza soffocare, guidare senza dominare, per affrontare le grandi questioni legate alla convivenza multietnica. La globalizzazione ha degli effetti che vanno oltre le manifestazioni tradizionali delle frizioni o piuttosto delle inimicizie che sono sempre esistite tra gruppi e nazioni. Dobbiamo per la prima volta misurarci con un altro fatto sicuramente straordinario: la crisi dello stato - nazione. Questa invenzione del XVIII secolo che non regge più per una contraddizione strutturale che non può essere superata da politiche a corto raggio, basate sull’espediente. Lo stato - nazione è troppo grande per avere un rapporto vitale con le comunità di base. In quest’ottica si spiegano le insorgenze e le tante leghe separatiste. Nello stesso tempo è troppo piccolo e debole per realizzare i grandi investimenti richiesti dall’odierna tecnologia produttiva. Siamo quindi di fronte ad una tendenza inarrestabile di concentrazioni, coalizioni, federazioni, confederazioni, che definirei le nuove Regioni del mondo che guardano al di là dello stato nazione. Nafta che riunisce Messico, Stati Uniti, Canada, nuove realtà nell’Oriente, nel Far West: Giappone, Taiwan, Cina, le unioni doganali per non parlare della stessa Unione Europea che sta battendo la strada dell’allargamento. E’ così avvenuto che mentre Ma gli Stati Uniti hanno spostato le loro attenzioni dall’Atlantico al Pacifico proiettandosi verso la Cina, l’Europa sta crescendo lasciando in un relativo isolamento la Russia post staliniana. La storia non obbedisce alle nostre fisime, ai “fischietti” degli storicismi che vorrebbero guidarla. Così l’Africa scopre solo adesso il valore dell’indipendenza nazionale, di questo bisognerà tener conto quando si disegnano nuovi equilibri geopolitici fondate sull’apporto di regioni plurinazionali e multietniche. Più che verso una società del rischio direi che stiamo andando verso una società planetaria, che si salverà dalla deflagrazione se riusciremo a creare i presupposti per un governo globale che al momento non c’è. L’unico embrione rimangono le Nazioni Unite che attraverso il Consiglio di Sicurezza lancia dei messaggi importante ai vecchi “stati nazione” che dovranno sempre più “sciogliere” e condividere la loro idea di sovranità nell’alveo più ampio delle nuove Regioni del mondo. Le periferie del mondo presentano tante storie tutte diverse. Le città sono quest’onda che Lei definisce in movimento. Dobbiamo rassegnarci, di fonte al divenire della società, ad uno tra le civiltà o esiste qualche spiraglio per il dialogo ? Samuel Huntington ha usato la celebre immagine un po’ ad effetto dello “scontro di civiltà”. Non è facile prevedere cosa può succedere quando insorge un contatto nudo, immediato, senza diaframmi tra gruppi etnici diversificati. Nonostante guerre e rumori di guerra, nonostante guerre calde e guerre guerreggiate nonostante le ostilità che insorgono di fronte al diverso ormai credo che ci si renda conto che la diversità può essere ricchezza. Non è solo un problema è anche una risorsa. Il richiamo che è venuto da più parti all’unità trascendentale delle religioni positive è un segnale importante. Le tre grandi religioni monoteiste: Islam, giudaismo e cristianesimo nonostante la preponderanza momentanea dei fondamentalisti, stanno dialogando. Le voci emergenti del “sufismo”, il volto dell’Islam che ha una visione di sé e del mondo non dominatrice fa capire che qualcosa sta mutando. La stessa Chiesa cattolica grazie a Woityla, ha cominciato ad allentare le posizioni che la vedevano possedere il monopolio dell’amministrazione del sacro. Nello stesso modo va letto l’avanzare delle religioni dell’accettazione e della contemplazione come il buddismo e l’induismo. Certo sarà difficile il passaggio all’unità trascendentale delle religioni positive, ma sarà una delle vie attraverso cui le grandi civiltà potranno convivere. Per questo contrariamente a quanto sostiene Beck e Huntington se volgo lo sguardo a lungo termine mi riscopro ottimista, i problemi che ci si pongono dinanzi e che abbiamo elencato sono terribili ma risolvibili. Il problema non è ipotizzare lo scontro, ma, come ho scritto nell’Enigma di Alessandro, costruire un nuovo “ellenismo”. Rifacendosi a quel mondo in cui vigeva una comprensione generalizzata, fondata su una lingua, la koinè greca. Oggi potremmo servirci dell’inglese e in molte aree dello spagnolo, la lingua è, infatti, uno strumento troppo importante per lasciarla ai linguisti. Quando cerco una parola giusta per farmi capire significa che sto tendendo una mano. Dobbiamo partire da qui, da questa visione e da questa disponibilità per superare gli steccati e per sconfiggere quelle paure che stanno annebbiando la mente dell’uomo contemporaneo.