Di Elias Trogu
A seguito della vittoria democratica alle presidenziali americane del novembre 2020, ci sono elevate aspettative circa un cambiamento più o meno significativo nell’indirizzo della politica estera statunitense, attese accresciute anche a fronte degli eccessivi livelli di polarizzazione, di personalizzazione delle scelte e di direzione ondivaga su alcuni dossier che hanno caratterizzato il quadriennio dell’amministrazione Trump.
Rispetto all’ex inquilino della Casa Bianca, la personale visione strategica di Joseph R. Biden – il quale vanta una esperienza ultraventennale nella gestione di tematiche di foreign policy – risulta riconducibile nell’alveo delle posizioni mediane più tradizionali del Partito Democratico improntate al liberal internationalism.
Ciononostante, nel corso della campagna elettorale Biden non ha dettagliato i propri obiettivi o priorità di politica estera, né ha presentato idee o ipotesi rivoluzionarie da adottare in merito alla postura generale del paese a livello globale.
Dalle parole del candidato democratico è però emersa la volontà di avviare un reverse process della condotta internazionale degli Stati Uniti, centrata su una rivitalizzazione del multilateralismo a scapito dell’America First e sulla priorità della diplomazia sull’uso della forza (o la minaccia della stessa) – ritenuta accettabile solo per motivi umanitari e per la protezione degli interessi vitali della nazione – evitando contestualmente quegli atteggiamenti provocatori e antagonisti distintivi della precedente amministrazione, che hanno polarizzato tanto la società americana, quanto la comunità internazionale, finendo per intaccare la credibilità e la leadership statunitense all’estero.
Guardando al peculiare contesto mediorientale, è realistico comunque attendersi, almeno nel breve termine, che la traiettoria politica di Washington nella regione non subisca deviazioni repentine e radicali rispetto a quella intrapresa da Donald Trump – anche perché per Biden e il suo team sarà fondamentale fornire risposte alle problematiche interne che affliggono il Paese.
Presumibilmente, le priorità di politica estera della nuova amministrazione nel quadrante regionale saranno sostanzialmente speculari a quelle affrontate dalla precedente, ovvero il disimpegno militare e la conclusione delle c.d. forever wars, la lotta al terrorismo, l’alleanza con Israele e i paesi arabi del Golfo e il containment iraniano.
Verosimilmente però si assisterà ad un mutamento nell’approccio nel perseguire gli interessi strategici americani rispetto ai singoli dossier mediorientali, di certo più vicino al modus operandi convenzionale dell’establishment democratico, elemento che conferirebbe maggiore prevedibilità e linearità alla conduzione della politica estera statunitense, senza che ciò debba tradursi in una riproposizione simmetrica dei contenuti sostanziali della dottrina Obama, soluzione che risulterebbe per giunta inattuabile oltre che inadeguata, a fronte dei cambiamenti occorsi nell’area MENA nel corso dell’ultimo quadriennio.
Il contesto geopolitico dell’area infatti, se da un lato conserva i suoi tradizionali elementi di instabilità, frammentazione e conflittualità, dall’altra vede la presenza di attori regionali (Turchia e Iran) ed esterni (Cina e Russia) che hanno approfittato del vacuum conseguente al progressivo disimpegno statunitense, ma anche di nuovi allineamenti (vedasi la normalizzazione sancita dagli accordi di Abramo). Di certo, il neopresidente eletto ridurrà la condizione di laissez faire concessa dall’amministrazione uscente ad Israele, Arabia Saudita, Turchia ed Egitto nei dossier di comune interesse, premendo sul rispetto delle norme di diritto internazionale, sul vincolo dei diritti umani e sulla forza delle alleanze.
Un Medioriente che quindi si presenta diverso rispetto al periodo in cui Biden ricopriva la carica di vicepresidente e su cui pesano indissolubilmente le iniziative della precedente amministrazione. Sul merito, il Segretario di Stato Antony Blinken, nel corso della prima audizione dinanzi alla Commissione Affari Esteri del Senato degli Stati Uniti, ha evidenziato che la postura adottata dalla presidenza Trump ha portato anche risultati positivi, fermo restando la necessità di cancellare alcune delle principali iniziative promosse dall’amministrazione uscente.
Nonostante sia stato duramente criticato per l’apparente avventurismo e la retorica provocatoria e aggressiva, al netto di alcune scelte estremamente divisive e caratterizzanti (es. il riconoscimento di Gerusalemme capitale di Israele o il nullaosta all’annessione delle alture del Golan), Donald Trump ha sostanzialmente ribadito le priorità strategiche di Washington nella regione, sostenendo i tradizionali alleati locali e finendo “solo” per imprimere una spinta decisiva a dinamiche latenti per ottenere risultati concreti in tempi rapidi. Emblematici in tal senso sono gli accordi di Abramo, dove la mediazione statunitense è risultata decisiva nell’accelerare un processo di normalizzazione dei rapporti tra Israele ed Abu Dhabi (e non solo), in realtà in atto da tempo.
Di certo la discontinuità più rumorosa rispetto all’ultima amministrazione Obama è quella relativa alla gestione delle relazioni Iran – USA. Il leader repubblicano, piuttosto che proseguire nell’edificazione di un nuovo equilibrio mediorientale in cui il Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA)[1] risultava strumentale ad un progressivo reintegro della Repubblica Islamica nel sistema regionale, ha invece preferito adottare una postura aggressiva nei confronti di Teheran, sostanziatasi nel rigettando dell’accordo sul nucleare iraniano (da cui gli USA sono usciti l’8 maggio 2018), nell’uso indiscriminato dello strumento sanzionatorio e in un’assertiva azione diplomatica volta a sostenere la costruzione di un’alleanza regionale in funzione anti-iraniana[2].
Da un lato, la c.d. strategia della “massima pressione” ha aggravato indiscutibilmente le criticità dell’economia nazionale iraniana, ridimensionandone le capacità di proiettare la propria sfera di influenza oltre i confini nazionali e accrescendone l’isolamento internazionale; dall’altra, è risultata però inefficace nel costringere la leadership di Teheran a negoziare un nuovo accordo “better deal” da una posizione di debolezza – uno dei principali obiettivi propagandati da Trump nel corso della campagna elettorale del 2016 – sentitasi quantomeno legittimata a disattendere i vincoli dell’accordo e a riprendere i processi di arricchimento dell’uranio oltre i limiti stabiliti dal JCPOA.
Nel corso della campagna elettorale, Biden e i membri del suo team (alcuni dei quali hanno avuto un ruolo di spicco nei negoziati che hanno condotto alla firma del JCPOA, inclusi il già citato Antony Blinken e Jake Sullivan, prossimo national security advisory) hanno duramente criticato la decisione di Trump di rinnegare l’accordo nucleare, sia perché esso ritenuto uno strumento essenziale per impedire che l’Iran – che il leader del partito democratico considera a tutti gli effetti un regime sponsor del terrorismo internazionale e un attore destabilizzante per gli interessi degli Stati Uniti e dei suoi alleati in Medio Oriente – sviluppi pienamente capacità militari atomiche, sia per aver creato le precondizioni per un progressivo avvicinamento tra Teheran, Pechino e Mosca.
D’altro canto, la nuova amministrazione si trova nella paradossale condizione di dover ammettere che le iniziative del presidente uscente nei confronti dell’Iran hanno consentito a Washington di ottenere un importante vantaggio strategico sul suo avversario mediorientale, un leverage negoziale che il neoeletto presidente non potrà non sfruttare.
Una constatazione che rende il semplice ritorno allo status quo pre-Trump sostanzialmente improbabile, risultando più realistico che il reintegro americano nel JCPOA si configuri come il primo step di un nuovo processo diplomatico, almeno secondo la prospettiva statunitense, destinato a costruire un’intesa di nuova ampiezza e caratura. Biden ha infatti espresso chiaramente la propria disponibilità a ritornare nell’accordo – qualora l’Iran riprenda a rispettarne le disposizioni in cambio della successiva revoca delle sanzioni decretate dall'amministrazione Trump – quale base per successivi negoziati (lo stesso obiettivo perseguito dalla precedente amministrazione) finalizzati al raggiungimento di una nuova intesa (implicita ammissione della fallacia dell’accordo del 2015), avente ad oggetto quelle tematiche tralasciate dal JCPOA (il programma missilistico, il rispetto dei diritti umani e l’attività regionale del regime iraniano e il presunto sostegno al terrorismo) in merito alle quali Teheran sarà chiamata a maggiori concessioni su questioni.
Uno scenario quantomai inaccettabile anche per l’attuale presidenza “moderata” della Repubblica islamica che, diversamente, si attende che siano gli USA a rientrare nell’accordo prima che Teheran torni ad allinearsi alla compliance nucleare; e che l’intesa venga ripristinata solo nei limiti di quanto deciso nel 2015, senza ulteriori discussioni su questioni estranee al dettato originario e considerate unanimemente non negoziabili dal regime di Teheran.
Sarebbe avventato considerare scontata la disponibilità al dialogo e soprattutto a nuove concessioni da parte della Repubblica Islamica, la cui diffidenza verso la controparte americana ha raggiunto livelli esasperati, soprattutto a causa degli infausti esiti della maximum pressure campaign sull’economia nazionale e degli strappi unilaterali del presidente uscente, in un momento in cui la Repubblica Islamica era pienamente conforme al dettato dell’accordo.
Infatti, se l’ala moderata-riformista guidata da Rouhani-Zarif appare disposta al dialogo e ad adempiere ai propri obblighi, previa la revoca degli ordini esecutivi di Washington che hanno imposto le sanzioni contro il regime di Teheran, l’ala ideologicamente e politicamente più oltranzista, che domina l'Assemblea consultiva islamica (il Majlis, l’organo legislativo iraniano) ed è sostenuta dai Pasdaran e dalla Guida Suprema Khamenei, ritiene la controparte statunitense assolutamente inaffidabile e incapace di accogliere le istanze di Teheran.
Elias Trogu
Global Security & Cyber Defence Dpt. Snam
Security Analyst
[1] Il JCPOA è stato sottoscritto il 14 luglio 2015 a Vienna, dalle sei maggiori potenze coinvolte nei negoziati con l’Iran, note come P5 + 1, ovvero i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (Stati Uniti, Francia, Regno Unito, Cina e Russia) e Germania, poi approvato dalla risoluzione 2231 del Consiglio di sicurezza dell’Onu. L’accordo prevedeva di impedire all’Iran di costruire ordigni atomici, consentendole l’impiego dell’energia nucleare a scopi esclusivamente civili. In cambio gli altri sei firmatari si sarebbero impegnati a rimuovere le sanzioni economiche imposte da USA, UE e ONU (risoluzione 1747). Il Jcpoa limita la purezza fissile per la raffinazione dell’uranio al 3,67%, che l’Iran ha già superato nel luglio 2019: da allora il livello di arricchimento è rimasto costante al 4,5%. Per la realizzazione di bombe nucleari serve uranio arricchito almeno all’80%.
[2] Trump, scettico sull’efficacia di questa strategia, era tornato alle alleanze più tradizionali con Israele e con le monarchie sunnite per contrastare ogni ruolo regionale di Teheran e ogni potenziale sviluppo del programma nucleare.